SARDINIA URBEX IN UNA CLINICA PEDIATRICA ANTITUBERCOLARE
Molti pensano che l’urbex sia un semplice passatempo in bilico tra illegalità, incoscienza ed un pizzico di curiosità morbosa verso luoghi ormai privi di vita ma in tanti anni ho capito che l’esplorazione di luoghi abbandonati ha un forte legame con la storia, ho capito che non sei un vero urbexer se non hai “fame” di storia e ti limiti a scattare delle semplici fotografie da esporre come trofei sui social. Fare urbex significa fare mille ricerche ed anche in questo caso ho letto molto e mi sono documentato prima di accingermi a raccontarvi questa ennesima esplorazione dell’abbandono.
Un racconto che potrebbe cominciare benissimo nella prima metà del secolo scorso ma che è necessario effettuare un rewind di circa 50 anni, utili per comprendere le condizioni sanitarie in cui si trovava la Sardegna e nello specifico il sulcis iglesiente. Siamo all’inizio del ‘900 e le cause di morte erano davvero tante: si moriva di appendicite, ernia, ulcera e soprattutto molte donne morivano insieme ai propri figli tra atroci sofferenze durante il parto, questo perchè i primi interventi di parto cesareo iniziarono solo nel 1910 ma a Cagliari, in quello che era l’unico ospedale nella provincia: il San Giovanni di Dio (operativo dal 1848). Inutile specificare quanto fosse lungo e complicato raggiungere il capoluogo in strade sterrate a bordo di carri a buoi.
Ci ritroviamo a cavallo tra le due guerre mondiali ed è qui che avvenne il miracolo, se lo possiamo definire tale, o forse era semplicemente il segno che i tempi stavano cambiando: l’industria mineraria del sulcis acquistò un’enorme valenza energetica e strategica per la nazione. Il“carbone Sulcis” divenne il petrolio e la benzina per gli aerei, le navi, i treni, le industrie ed il riscaldamento domestico dell’Italia. Il minatore, improvvisamente, divenne un bene prezioso e come tale andava preservato con i migliori servizi sanitari, visti e considerati i problemi di salute dovuti alle precarie condizioni di lavoro, tra questi la silicosi che spesso tra le conseguenze aveva la tubercolosi.
Ed è proprio per contrastare l’emergenza tubercolosi che agli inizi degli anni 50, in un terreno donato alla città da Don Oscar Rodriguez, figura storica iglesiente di grande rilievo sia in ambito politico che religioso, cominciò la costruzione del preventorio pediatrico antitubercolare. Era il 1958 quando l’ospedale Fratelli Crobu divenne operativo e venne dedicato a Mario e Massimiliano Crobu, due fratelli morti durante la prima guerra mondiale e legati da vincoli affettivi proprio alla famiglia Rodriguez.
L’idea era di creare qualcosa di diverso, costruire un ospedale che avesse una marcia in più ed è con questa idea che gli architetti Michele Raffo e Raffaello Mattiangeli progettarono il complesso nelle campagne di Canonica, a pochi km dal lago corsi. L’edificio, immerso in quattordicimila metri quadrati di macchia mediterranea, disponeva di ben 390 posti letto e tutto era pensato ed organizzato in modo da gestire degenze che andavano dai 12 ai 24 mesi. L’età dei pazienti andava da pochi mesi a 14 anni ed al suo arrivo ogni bambino faceva circa 20 giorni di isolamento per poi iniziare la degenza. Si veniva divisi in gruppi per età per poi essere affidati alle assistenti ed i bambini ricevevano davvero tutto, dalle calze al cappotto. Al Crobu c’era tutto quello che consentisse ai piccoli pazienti di proseguire una vita normale: oltre al giardino c’era il cinema, il campo sportivo, la palestra ma non solo, i bambini potevano andare a scuola, festeggiare Natale e Pasqua, compleanni e fare pure la comunione.
Tra gli anni ’70 e gli anni ’80, visti i progressi nella cura della tubercolosi, il Crobu diventa un ospedale pedatrico e proprio in quella decade, esattamente nella vigilia di Natale del 1981 la sala operatoria vede il primo intervento di Chirurgia Pediatrica, il primo di una lunga serie che permetterà all’ospedale di essere considerato un vero gioiello della chirurgia e neuropsichiatria infantile. Sempre parlando di primati, nel 1983 fu il primo ospedale sardo a organizzare e gestire spazi per il pernottamento dei genitori dei piccoli pazienti ma nonostante l’eccellenza che contraddistingueva i vari reparti, grazie ad una razionalizzazione sanitaria attuata dall’allora Assessore Dirindin, nel novembre del 2006 l’ospedale Crobu viene definitivamente chiuso.
Nel 2013 il Crobu diventa nuovamente protagonista con un servizio di Pet Therapy, il reparto di zooantropologia assistenziale che grazie al lavoro di una psicoterapeuta, un veterinario, educatrici cinofile e soprattutto al supporto di tre cani, venivano assistiti bambini e adolescenti provenienti da diverse parti della Sardegna, anche quelli vittime di abusi o con difficoltà relazionali. Nel 2019 il reparto venne chiuso a causa di infiltrazioni d’acqua e crolli sempre più frequenti, stessa sorte toccata nei primi mesi del 2020 agli uffici di Forestas, l’Agenzia Forestale Regionale per lo Sviluppo del Territorio e dell’Ambiente della Sardegna che dal 2017 occupavano un’ala dell’ospedale.
Dopo tanti anni di eccellenza pediatrica sarda, l’ex ospedale Crobu, diventa l’ennesimo emblema di abbandono.
Fare urbex in un’ospedale è sempre causa di emozioni forti ed era già accaduto durante l’esplorazione di un’altra clinica pediatrica sarda, il Macciotta. Il Crobu è una struttura davvero enorme e mi ci sono voluti due giorni per poter esplorare ogni piano, ogni ala, ogni singola stanza. Ho percorso i corridoi cercando di immaginare il via vai di dottori ed infermieri ed il vociare dei bambini ricoverati, mi sono soffermato con lo sguardo su piccoli particolari: da un’incubatrice ai giocattoli e peluches sparsi ovunque, da un EEG vintage a centinaia di cartelle mediche, fino ad arrivare ad un semplice cavallino a dondolo. Ma le sensazioni più forti sono arrivate scendendo nei sotterranei che come un labirinto si snodano per tutta l’estensione dell’ospedale, dal reparto di Pneumologia, più staccato degli altri, fino al corpo centrale, in un dedalo di corridoi bui che ho percorso quasi fino a perdere la cognizione del tempo. Ed è proprio nei sotterranei che si è esaurita la mia esplorazione, quando sono entrato nel piccolo e ristretto obitorio: qui il senso di oppressione e claustrofobia è diventato più intenso e dopo aver scattato le ultime foto, ho ripercorso velocemente il sotterraneo con l’esigenza di prendere una boccata d’aria circondato dal verde della macchia mediterranea.
Come per la clinica Macciotta, ho raccolto qualche testimonianza:
“Mi ricordo che il corridoio era completamente colorato e c’erano un sacco di immagini di cartoni animati.” (Marco)
“Era un “bellissimo”, per quanto possa essere bello, ospedale. Ero ricoverato per una broncopolmonite e ho fatto là tre mesi pieni. Il personale era gentilissimo…ricordo che c’era una stanza enorme con dentro i giochi per tutti e io, con la mia compagna di stanza, ci accaparravamo tutti quelli più belli per poi nasconderli sotto il nostro letto! Sono stato bene, ripeto, il personale era molto gentile e attento alle nostre esigenze tant’è che, una volta dimesso, chiedevo ai miei di portarmi per salutare medici e infermieri. “(Edoardo)
“Comunque i medici e gli infermieri nel 98 erano troppo bravi e gentili.. in camera con me è potuta rimanere mia madre..ogni giorno passava la giornalaia con il carrellino pieno di giornali e giochi…la stanza dei giochi stava a fine andito e l’ho vista di sfuggita perché non volevano che ci andassi, solo ora capisco che potevo spaventare perché avevo un tubo dentro al naso collegato con una borsa a tracolla con dei cavi…Cosa che a me minimamente non disturbava…Mia madre racconta che in realtà mi sentí gridare mentre mi mettevano quel tubo e che lei non poteva entrare ma io gridavo tanto, io questo non lo ricordo.” (Sonia)
“A me mi hanno traumatizzata sinceramente. Erano molto bruschi certi infermieri.
Cercavano sempre di immobilizzarmi le gambe e le braccia per fare prelievi.
I medici bravi, mi hanno salvato la vita ma tutto il resto del personale pessimo.
Mi ricordo che ormai avevo il terrore anche di fare una lastra.” (Jessica)
“Io sono stato ricoverato per 2 settimane da bambino all’ernia inguinale proprio tra capodanno e l’epifania (trascorsa a letto); ovviamene nel reparto ricordo la gentilezza delle infermiere e dei medici che anche per delle punture tanto temute facevano sembrare un gioco, ricordo che portavano qualche gioco e facevano l’iniezione proprio mentre giocavo con i giocattoli; nel reparto passavano spesso animatori (per lo più vestiti da pagliacci) e entravano in tutte le stanze per far ridere i bambini…i miei ricordi sono stati felici soprattutto con la befana che portò i doni a tutti…era definito l’ospedale dei bambini e lo confermo” (Andrea)
“Mi ricordo quando mi stavano per fare l’anestesia e mio babbo mi portò un modellino di macchina per farmi stare tranquillo…e al mio risveglio avevo ancora la macchinina fra le braccia…E tutt’ora ho quel modellino in camera di fronte al letto.” (Davide)
“Ero ricoverata con mio fratello e mia sorella di sette e cinque anni, io ne avevo dieci! Ci siamo rimasti un mese in estate! All’arrivo ci hanno tagliato i capelli (per i pidocchi credo), l’abbigliamento lo forniva l’ospedale compreso intimo e calzature! La colazione, il pranzo e la cena la facevamo tutti assieme e si dormiva in tanti in uno stanzone! Per me è stato come stare in colonia. Ci portavano nel bellissimo giardino a giocare! Avevo fatto amicizia con una bambina della mia età di San Benedetto che era ricoverata con tre fratelli! La cena veniva servita molto presto e a una certa ora avevamo di nuovo fame allora le infermiere ci facevano fare uno spuntino, erano come delle mamme per noi! La domenica c’erano le visite dei parenti che ci riempivano di regali e di caramelle.” (Valentina)
NOTA:
Le foto in tutti gli articoli sono pubblicate esclusivamente per documentare la bellezza di questi posti e non sono un invito a replicarle. Sardinia Urbex declina la propria responsabilità di fronte ad atti vandalici e sconsiglia l’ingresso.